Il 27 gennaio è la Giornata della Memoria, ovvero, la giornata dedicata a commemorare le vittime dell’Olocausto. È stato scelto questo giorno perché il 27 gennaio 1945 le truppe dell’Armata Rossa, dirette verso la Germania, entrarono nel campo di concentramento di Auschwitz liberandolo. Ad Auschwitz, che in realtà si chiama Oświęcim, ci sono stata nel dicembre del 2018. Eravamo andati in vacanza a Cracovia e ci chiedevamo se fare una visita oppure no. Ci sembrava importante conoscere quel luogo, ma coscienti di quale luogo fosse, volevamo andarci solo se ci sentivamo pronti a vedere quello che sapevamo avremmo visto.
Quel giorno arriva e saliamo sull’autobus.
Appena scesa, la prima cosa che mi chiedo è perché ci sia un grande locale con la scritta “pizza”. Poi vedo un parcheggio enorme, pullman e mi dico che effettivamente tutte quelle persone avrebbero avuto bisogno di mangiare. Avevamo prenotato una visita guidata ed aspettiamo il nostro turno insieme a moltissime altre persone di diverse nazionalità, soprattutto scolaresche e ragazzi giovani. Mentre me ne sto lì seduta a guardare il continuo via vai di persone, penso a come possano sentirsi i ragazzi tedeschi.
“Italiano”, dice una guida, ci alziamo e la seguiamo. Siamo un gruppetto un po’ variegato, ci sono anche dei bambini abbastanza piccoli nonostante si consigli la visita a partire dai dodici anni. La guida fa un discorso introduttivo chiedendo soprattutto rispetto. Ricorda delle norme di comportamento che tutti dovremo seguire di per sé senza aver bisogno che qualcuno ce le ricordi. Niente selfie, niente foto nei posti in cui è proibito. Rispetto insomma.
Iniziamo. Mentre ci troviamo nella spianata con in fondo il cancello che tutti conosciamo, la guida ci spiega che il nome polacco della cittadina era stato cambiato dai tedeschi, che il luogo era stato scelto per le connessioni strategiche e che il museo era stato fondato e portato avanti dalle vittime. Intanto mi guardo attorno e vedo uno che si fa fare una foto proprio davanti al cancello con la scritta Il lavoro rende liberi. Continuiamo. La ragazza polacca prosegue con la ricostruzione e noi la seguiamo con un ritmo un po’ forzato, altrimenti non avremo tempo di vedere Birkenau prima del tramonto, il secondo campo costruito quando Auschwitz non bastava più.
Ci avviciniamo alle strutture di mattoni ed entriamo in quelle adibite a museo. Il bambino più piccolo, scorrazzato con il passeggino tra la neve, resta fuori insieme al papà. Il resto del gruppo entra e vede la montagna di giocattoli, quella di scarpe, di valigie, le stoviglie, le protesi. Perché sì, le protesi venivano tolte a chi le portava e riutilizzate dai soldati feriti.

A prosthesis – an item plundered from people deported to Auschwitz (Fonte)
C’è anche un tappeto che sembra fatto di feltro. È alto, arrotolato molte volte su se stesso e, quando mi avvicino alla bacheca, da un estremo vedo uscire dei capelli. È un tappeto fatto con i capelli rasati alle donne, infatti. Pensare a quanti formano l’intreccio compatto di queste spirali che si ripetono una dopo l’altra, sempre più grandi, fa veramente male. Quando rivedo il bambino che nella sua tuta da sci continua a divincolarsi nel passeggino mentre i genitori gli dicono di stare buono, spero solo che non capisca niente di quello che ha attorno.
Prendiamo una navetta ed andiamo a Birkenau. Se i capelli mi hanno fatto impressione, la vista dei tanti casermoni che si ripetono ordinati uno dopo l’altro mi fa raggelare il sangue. Mentre il sole cala e il freddo si fa strada nel corpo coperto dagli indumenti termici, la nostra guida ci spiega che i deportati avevano una stufa con pochissimo carbone, che potevano andare alla latrina solo in determinate ore, motivo per il quale chi stava nelle brande superiori era fortunato visto che non gli poteva cadere niente addosso.
Si sopravviveva pochissimo a causa dell’alimentazione, dello sporco, del freddo in inverno e del caldo asfissiante in estate. Intanto, poco lontano una coppia si fa un selfie esibendo una faccia corrucciata. Mi fermo a guardarli, vorrei dire loro qualcosa ma non so veramente che parole usare. Una bambina del nostro gruppo, anche lei troppo piccola, dice alla mamma che si annoia, che non capisce e lei la sgrida perché deve ascoltare.

Living barrack (fonte)
Vediamo le rotaie con cui arrivavano i deportati, ci viene spiegato che il vagone posizionato a fianco è una ricostruzione verosimile e che il viaggio peggiore era quello di chi veniva dai paesi più lontani, come la Grecia. Mentre rabbrividisco, non solo per il freddo, dei ragazzini si divertono a fare equilibrismo sulle rotaie.
Finiamo guardando le rovine dei forni fatti saltare poco prima che i nazisti lasciassero il campo, con alle spalle le lapidi in ricordo dei morti e, ancora oltre il filo spinato, un bosco di alberi alti. Mi chiedo cosa potessero pensare i deportati guardando quegli alberi.

Mi chiedo, vedendo tutto questo, in che momento il campo di sterminio simbolo dell’Olocausto sia diventato quasi un macabro parco di divertimenti.
Non sarà certo per mancanza di conoscenze, perché il Novecento si studia a scuola e nell’immaginario collettivo ci sono il diario di Anna Frank, Schinderl’s list e molto altro ancora.
Hannah Arendt aveva presenziato il processo di Eichmann e di altri nazisti a Gerusalemme: gli uomini che facevano parte di quella terribile macchina burocratica, studiata in modo scientificamente perfetto per perpetuare il massacro, erano uomini normali, che si giustificavano dicendo di compiere ordini. Tanta brutalità non era stata perpetuata solo per malvagità, ma per l’inconsapevolezza delle proprie azioni. La stessa inconsapevolezza che ci fa essere ancora oggi, ancora troppo spesso, disumani. La banalità del male.
Testo e foto di Chiara Mancinelli