
Il primo giorno fu davvero terrificante. Quando aprii gli occhi, scoprii che il mio corpo era mutilato, non avevo più la mano sinistra e avevo perso il piede destro. Ero in pessime condizioni e la mia vita era attaccata ad una grossa macchina posta vicino a me: questi gli orrori di una guerra.
Il secondo giorno cominciai ad abituarmi all’idea che non avrei più potuto correre, né essere una quattordicenne normale, anche se l’ospedale, i morti, i feriti restavano per me l’orrore di un incubo.
Il terzo giorno fu anche peggiore del primo. I morti aumentavano: quando qualcuno guardava fisso davanti a sé per più di qualche minuto, si capiva che era morto. L’unico conforto era un ragazzo bianco, vicino alla mia branda. Neanche lui riusciva a parlare, ma comunicavamo con gli occhi e gli sguardi. Il suo azzurro nel nero dei miei rispecchiavano le atrocità di una guerra senza senso.
A metà pomeriggio vidi che incominciò a fissare la croce sopra la porta della stanza. Mi spaventai, ma fortunatamente si girò e mi disse (con gli occhi): “Prego sempre che un angelo mi venga a prendere e mi porti via, in un posto con un grande prato verde, il cielo blu e un bel fiume con l’acqua fresca”. “Non dire scemenze”, ribattei. “Un posto così non può esistere! Non vedi dove siamo?”. “Tu dici?”, chiese lui.
Rimasi frastornata, ma ritornai alla realtà quando sentii una raffica di mitra, di istinto mi appiattii contro il materasso ma il ragazzo non fu veloce quanto me. Giaceva a terra con una pallottola piantata in testa e una in petto. I suoi occhi guardavano fissi davanti a sé. Il sangue mi si raggelò nelle vene, non una lacrima mi scivolò dagli occhi, ma dentro, la mia anima si disperava, gridava il perché di tanta crudeltà.
Arrivarono gli infermieri. “Anche dentro gli ospedali sparano! Bastardi!”. Ma io sentivo appena. E volò così anche il terzo giorno.
Il quarto giorno non mangiai, non bevvi, non pensavo che al mio amico perduto per sempre. Ricordai le sue parole sul giardino… e sulla morte. Cominciai a piangere, ero sconvolta dai singhiozzi, nascosi il viso nel piccolo cuscino, ma non riuscivo a smettere: mi tirai su, mentre le lacrime mi bagnavano ancora tutta. Guardai la mano che non avevo più, il piede che non c’era e i morti, i feriti tutti intorno a me e improvvisamente volli morire anch’io.
Mi trascinai vicino alla macchina che mi teneva in vita, tesi la mano verso il filo che mi legava a quell’orrore, a quell’incubo, ma prima guardai quella croce. Poi presi in mano il filo e lo avrei pure tirato se una raffica di mitra non mi avesse ucciso prima. Sentii un dolore lacerante al petto, poi più niente. Mi afflosciai come foglia al vento e sprofondai in un sonno buio. Mi sentivo precipitare in un baratro scuro, tentai di aggrapparmi a qualcosa ma non c’era niente. Ebbi paura. Poi una luce. Due mani candide mi afferrarono. Ero sicura. Voltai il viso verso il mio salvatore. Era il ragazzo. Non gli domandai perché aveva una veste bianca e due ali morbide, candide, solo lo abbracciai. Forte. Ero felice, finalmente felice.
Non conto più i giorni, non mi importò del tempo. Vivo felice in un prato verde, con il cielo blu ed un fiume con l’acqua fresca, con il mio angelo custode. Un angelo venuto dal cielo.
By Chiara Mancinelli
Trieste, 16/03/1997 Ore 12 (mattina)
Testo e foto di Chiara Mancinelli