
C’era una volta un palloncino. Era nato in una fabbrica insieme a tanti, moltissimi altri fratelli, frutto dell’unione di un movimento frenetico tra due macchine, mosse dal desiderio sterile di chi vedeva dei guadagni in quella prole numerosa. Non aveva visto granché del mondo: solo le grandi stanze della fabbrica, gli interni di camion e container, lo scaffale di un negozio. Era rimasto lì un po’ di tempo finché, passando da una mano all’altra, era stato condotto fuori, all’aperto.
Quel giorno era davvero bellissimo. Disteso sul palmo di una mano, aveva potuto vedere le chiome verdi degli alberi e, oltre, il magnifico cielo azzurro di una mattinata invernale. Sapeva che di lì a poco sarebbe stato strattonato, teso, allungato. Il suo corpo si sarebbe modificato come mai l’aveva visto prima. Ed avvenne esattamente così. Poco a poco cominciò a sentire l’aria immessa, un sibilo sottile che aumentava d’intensità man mano che il suo corpo se ne riempiva. La sua pelle rossa si dilatava e si espandeva spinta dall’aria che continuava ad entrare e a fluire. Era cresciuto enormemente ed ora anche la distanza che lo separava dalle cose era mutata. Le foglie verdi adesso sembravano più vicine, così vicine che quasi poteva toccarle. Uno strattone improvviso lo allontana inaspettatamente dal ramo che sta per accarezzare. Ne è responsabile la manina che stringe il filo bianco a cui è stato stretto. È quell’altra estremità, quella che tocca terra, a dettare i suoi movimenti e a imporgli la via da seguire. Ma la via terrestre non è fatta per il palloncino, che, pur consapevole della sua fragilità e della sua esistenza fugace, vuole conoscere il cielo e vedere il sole. Magari anche il mare, sì, il mare. Deciso, si scuote con energia finché, aiutato da un alito di vento, il filo che lo ancora a terra sfila via dalla mano che lo stringe. Finalmente libero, vola.
Testo e foto di Chiara Mancinelli