Il cacciatore di fari

Il cacciatore di fari è un racconto di Chiara Mancinelli illustrato da Jana Kalc. Il racconto dà il titolo al libro di Chiara Mancinelli pubblicato da Robin. È ambientato a Trieste.
Jana Kalc, Il cacciatore di fari

Se ne stava in piedi sulla punta del molo, le mani affondate nelle tasche, le gambe leggermente divaricate. Il vento gli muoveva i capelli brizzolati e il bavero del giubbotto blu. Manteneva lo sguardo fisso sull’orizzonte, sul mare che gli si presentava davanti con i colori caldi del tramonto. Niente distraeva quello sguardo: non i passanti che si susseguivano per contemplare il giorno che si spegneva, non gli innamorati seduti sulle panchine che abbracciati si scambiavano teneri baci, non le barche che passeggiavano in quel lembo di mare. Nulla. Il suo sguardo era interrotto solo da brevi batter di ciglia, incurante dei commenti di chi lo vedeva fermo lì e sussurrava a mezza voce o pensava in cuor suo: “Ma quello che fa?”. Aveva un’aria serena anche se, sotto la barba folta, si nascondeva un’espressione della bocca un po’ beffarda. Cosa guarda? Questo si stava chiedendo Martina che, attratta da quella figura immobile, aveva interrotto le corse e i giochi con Polo, il suo cane. Lo vedeva lì, in piedi, sulla punta, fermo. Guardava. Ma cosa? Martina era una bimba curiosa e così si avvicinò.

Si era messa alla destra dell’uomo a poca distanza ma ben attenta a non oltrepassare il limite del molo per non cadere in acqua, pericolo su cui era stata avvertita tante volte. Nonostante avesse ben memorizzato il monito, stirò il collo per vedere se quello che guardava l’uomo stesse in acqua lì sotto. C’erano piccole onde, di colore più scuro vicino al molo, che si facevano più dorate man mano si allontanavano in direzione del sole che tramontava. No, lì non c’era nessun pesce, nessun sacchetto che galleggiava, niente d’interessante insomma. Si girò a guardarlo meglio. Lo sguardo di quell’uomo era fisso davanti a lui: non guardava sotto di sé, ma davanti a sé. Martina allora si voltò alla sua destra e scrutò lo scenario alla ricerca di quel qualcosa che catturava l’attenzione di quel signore. C’erano le barche ormeggiate che si dondolavano, una boa gialla che si stendeva a largo, un edificio bianco. No, tutto troppo basso, dev’essere più in alto. Allora più in alto si vedeva l’altipiano con un bel po’ di case e lucine che iniziavano piano piano ad accendersi. “No, troppo a destra, lui guarda dritto”, pensò Martina. Un motoscafo passa e lascia una scia dorata dietro di sé, i gabbiani si susseguono nel cielo e la mamma chiama Martina.

Ma Martina vuole capire prima di correre dalla mamma e da Polo. Si concentra, stringe gli occhi e una piccola linea appare tra le sue infantili sopracciglia aggrottate.  Deve far presto prima che la mamma, che non vuole contrariare, si spazientisca. “Martina! Vieni, dobbiamo andare”, gridò la mamma che vedeva la bimba un po’ distante. Altre case, altre barche, il faro della Vittoria, Miramare. Ma certo! “Martina! Adesso basta, dai!”, disse la mamma che non era del tutto sicura della presenza di quello sconosciuto che, anche se incurante della presenza della bimba, era pur sempre abbastanza vicino a lei e al bordo. “Polo! Cosa fai?!”. I passi della mamma verso la figlia sono interrotti dal comportamento del cane che si era messo a scodinzolare e ad abbaiare contento intorno ad una coppia di turisti che stava tirando del pane ai gabbiani. Martina si girò soddisfatta verso il signore e affermò contenta: “Ho capito! Guardi il castello!”. Lui non si voltò e, continuando a guardare fisso davanti a sé, rispose calmo: “No.” Ma come! Martina era sicura che quello che stava guardando fosse proprio il castello di Miramare, quel bel castello bianco affacciato sul mare dove era stata con i nonni a dare da mangiare ai cigni. Il nonno le aveva spiegato che l’aveva costruito un imperatore e che era un castello molto bello che tutti ammiravano. Anche Martina era convinta che fosse bello specie dopo avere visto l’interno con la nonna che le spiegava la sua storia come fosse una fiaba. “Martina, dai”, chiamò ancora la mamma, che dopo aver messo Polo al guinzaglio, marciava convinta in direzione della bimba.

I fari dei palazzi di piazza Unità, alle spalle del molo, sostituiscono quella luce dorata e calda che gli ultimi raggi del sole avevano creato riflettendosi sulle decorazioni. Del sole restava solo un ultimo bagliore, l’aria si era fatta fresca e la mamma voleva tornare a casa. A quel punto, un occhio luminoso e lontano si aprì e gettò uno sguardo radiante sul golfo. Era una danza circolare che si ripeteva sempre uguale. Un giro. Due giri. La mamma era ormai a qualche passo dalla bimba che però non voleva arrendersi. “Cosa guardi allora?”, disse quasi in un impeto rabbioso. “Martina!”, la corresse la mamma che la prese per mano assicurando la figlia a sé. Solo allora l’uomo si girò verso di loro. I suoi occhi erano scuri ma luminosi. “Nascondono un segreto”, pensò Martina, probabilmente lo stesso segreto che celava l’espressione soddisfatta e un po’ beffarda della sua bocca. “Il faro”, rispose calmo l’uomo, che, sempre con le mani affondate nelle tasche, finalmente si mosse e intraprese la via verso le rive.

La mamma si chinò verso Martina, contenta che l’uomo fosse andato via, e le tirò su la zip della giacca rosa. “Adesso basta”, le disse dolcemente, “lascia stare il signore e andiamo a casa, che anche Polo è stanco”. Martina guardò la mamma, che le fece una carezza, e guardò Polo, che la ricambiò scodinzolando con la lingua di fuori. “Ma…”, disse piano con una vocina sottile guardando la mamma con sguardo attonito. Per un attimo stette per rassegnarsi a non avere una risposta alla sua curiosità. Polo abbaiò e la guardò ancora con la sua bocca aperta e la lingua di fuori, aspettando un nuovo gioco con la padroncina. No, non era stanco e l’uomo non era ancora troppo distante. “Perché?”, urlò forte. La mamma sospirò. Lui, che nel frattempo aveva tirato fuori una sigaretta e un accendino, fermò il suo passo tranquillo. Infilò la sigaretta in bocca, una mano premette l’accendino mentre l’altra faceva scudo alla fiamma dal vento. Tirò e soffiò via il fumo guardando in alto, verso il cielo ormai stellato. “Sono un cacciatore di fari”, disse rivolto verso i tre. La mancanza di luce e la distanza non lasciarono intravedere il sorriso abbozzato che accompagnava la risposta. Perché lui lo sapeva, sapeva cosa sarebbe accaduto dopo. Si girò e riprese nuovamente il cammino.

Martina aveva avuto la risposta alla sua domanda. Per qualche attimo rimase in silenzio, mentre la mamma le chiudeva anche i bottoni della giacca, la prendeva per mano e si avviava con passo svelto verso la macchina posteggiata sulle rive. La bimba rimuginava su quella risposta e ripeteva dentro di sé le parole dell’uomo. Aveva lo sguardo basso, vedeva il susseguirsi dei grandi lastroni che formavano il pavimento del molo e pensava, pensava sempre. Quando incontrarono un mozzicone di sigaretta ancora acceso all’inizio del molo, Martina improvvisamente si fermò e guardando la mamma chiese: “Cos’è un cacciatore di fari?”.

Testo di Chiara Mancinelli

Illustrazione di Jana Kalc


Il cacciatore di fari fa parte dell’omonimo libro di Chiara Mancinelli, illustrato da Jana Kalc ed edito da Robin edizioni.


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