In viaggio

In viaggio Marocco è il primo racconto della serie In viaggio. Il racconto è di Chiara Mancinelli.

Qui non suonano le campane, ma suona la voce del muezzin. Può sembrare che il tempo si sia fermato ma, semplicemente, è scandito in modo diverso.

Fez, 13-14 settembre 2008

Io, Eider e Giulia prendiamo l’aereo Girona – Fez alle 12:50. Durante il volo ci rendiamo conto dei primi cambiamenti: i passeggeri sono quasi tutti arabi e i pochi occidentali risaltano per la loro bianchezza in mezzo a tante pelli scure. Quasi tutte le donne portano il velo e molte hanno bambini piccoli attaccati al collo. Il volo è tranquillo: i pianti dei bimbi si spengono dopo l’iniziale paura, molti sussurrano preghiere a fior di labbra con gli occhi socchiusi e il corpo poggiato al tavolino. Nessuno compra da mangiare o da bere quando le hostess passano sorridenti con il carrellino e, quando tiro fuori il panino, mi sento molto osservata. Non riusciamo a goderci il paesaggio perché ci siamo sedute vicino all’ala, ma gli squarci che vediamo (terra rossa, un lago turchese, il mare blu) sono stupendi. Leggiamo un po’ la guida, dormicchiamo, chiacchieriamo, ci chiudiamo a riccio per il freddo sputato fuori dal puto aire acondicionado. Il tempo passa, finalmente atterriamo. Per il fuso orario è la stessa ora da cui siamo partite da Girona. Dopo una lunga fila per i passaporti, dopo aver cambiato i soldi e aver perso l’autobus, decidiamo di prendere un taxi con un altro tipo per andare alla Medina. Quando scendiamo (discutiamo sul prezzo) forse mi comincio a rendere conto che sono in Marocco! Facciamo un giro per cercare dove dormire e ci lasciamo avvolgere (letteralmente).

Le strade della Medina sono strette, intricatissime, piene di gente e di odori (profumi deliziosi e puzze terribili). Il caldo è soffocante. Torniamo sui nostri passi e prendiamo una stanza in un hotel. Mollati gli zaini e comprato da bere, ci avventuriamo per le strade della Medina. Tutti ci guardano: gli uomini dicono “bella, guapas, beautiful”, altri “bonjour, bienvenidas”. Una bambina con il viso incorniciato da un velo rosa ci sorride e ci dice “bonjour” mentre ci passa accanto portando un bimbo piccolo in spalla. Le donne hanno vestiti molto diversi, alcune solo il velo che copre i capelli, altre anche il viso, altre non lo portano. Le berbere invece vestono tuniche con cappucci di diversi colori. Quando vedo uno zaino per bambine con il disegno di Barbie coperta da un velo nero sento mancare il fiato per un attimo.

Per strada si vende di tutto: spezie, babbucce, fazzoletti, cibo di tutti i tipi. Vediamo una testa di cammello appesa, una vetrinetta di dolci piena di vespe. Vogliamo andare al mercato del cuoio ma sappiamo già che ci perderemo. Troviamo una sala da tè e andiamo sulla terrazza del tetto a berlo. La vista è meravigliosa: le case chiare strette le une alle altre e, oltre, i monti. Il muezzin chiama e la sua voce melodiosa si diffonde nel silenzio della terrazza e nella confusione delle stradine sottostanti. Beviamo il primo di molti tè alla menta.

Riscendiamo e, non sappiamo bene come, un ragazzo, Fuad, e il suo fratellino diventano le nostre guide e ci scortano nell’intricato intreccio di strade, colori, odori. A volte la gente, le mosche, gli odori forti mi soffocano, ma si è continuamente attratti da tutto e da tutti. Finiamo in un negozio che vende sciarpe e il ragazzo ci mostra come si tessono e come si portano i copricapi delle donne berbere del deserto e delle montagne. Ci offrono tè, parliamo e poi io e Giulia compriamo una sciarpa a testa. Il nostro giro prosegue con qualche sosta, come quando un asinello carico deve passare nelle strade strettissime. Arriviamo al quartiere delle concerie e, dalla terrazza di un negozio, vediamo come si lavano le pelli nelle grandi tinozze piene di colore, le si lavora, le si stende al sole.

Alle 18:30 finisce il Ramadan e tutti si precipitano a mangiare e a bere, per strada e nelle case. Rashid, l’amico di Fuad, ci invita a mangiare da lui. Accettiamo. La casa, lì vicino, non ha porta, le scale sono strette e i muri bassi. Conosciamo Jamila, sorella di Rashid, e Fatima, una sua amica. Parlano solo arabo e berbero ed è difficile capirsi. Spesso finiamo tutti col ridere! Jamila sembra una statua della fertilità femminile ed ha grandi occhi neri e profondi. Fatima porta il velo ed una lunga tunica, ha occhi piccoli con una luce rossa. Ha trentaquattro anni ma alcune rughe intorno agli occhi sembrano dire di più. Accettiamo di farci fare un tatuaggio con l’henna sulla mano come portafortuna. Sono stanchissima e finalmente torniamo in albergo.

Ci svegliamo presto per i rumori e la luce. Andiamo a bere un caffè in un bar fuori (nella Medina nei bar ci sono solo uomini) e alle 13 ci incontriamo con Fuad e Rashid. Lasciamo gli zaini a casa di Rashid (dormiremo da lui la notte), ma i nostri piani di visita per la città saltano per il calore terribile che toglie le forze. Jamila ci offre tè e pasticcini (una cosa buonissima con riso e miele). Non ci va di mangiare davanti a loro, glielo diciamo ma ci dicono che non c’è problema.

Usciamo con Jamila per andare al mercato a comprare l’occorrente per la cena: cucinerà cuscus. Prima di uscire, slaccia il fiocco che teneva alzati i pantaloni alla pescatora, indossa un vestito che copre braccia, petto e capo. Al mercato mi sembra di essere una bambina che segue la mamma: Jamila cammina con passo sicuro, sa già dove andrà e cosa prenderà, noi, invece, le andiamo dietro facendo attenzione a non perderla distraendoci con quello che vediamo intorno. Più tardi usciamo un’altra volta con i ragazzi che ogni tanto spariscono quando vedono la polizia. Le guide non ufficiali sono vietate e le multe sono salate. Un tipo dice ad Eider di coprirsi le spalle perché è Ramadan, un altro le offre cento cammelli. Torniamo a casa e mangiamo alle 18:30. Ci sono anche la mamma e il fratellino i Rashid. Mangiamo zuppe, pane, uova. Dopo un po’ andiamo agli hammam con Fatima e Jamila. Paghiamo le nostre entrate, le loro, lo shampoo e il sapone e una signora che ci controlli le borse. I bagni sono costituiti da due stanzone. Riempiamo due secchi a testa con acqua calda e fredda. Ci sediamo e cominciamo a bagnarci e a sfregarci forte con un guanto. Ci sono tantissime donne e ci sentiamo un po’ osservate. Ci si pettina e ci si fa massaggi a vicenda. Conosciamo Fati, una loro amica. Dopo un paio d’ore, torniamo a casa e finalmente mangiamo il cuscus tutti quanti sulla terrazza. È buonissimo! La mattina presto ci svegliamo, lasciamo dei soldi per ricambiare l’ospitalità e ripartiamo alla volta di Rabat.

Testo e foto di Chiara Mancinelli

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