Le conversazioni notturne

Le conversazioni notturne è un racconto di Chiara Mancinelli illustrato da Daniela Calandra. È ambientato a Barcellona.
Le conversazioni notturne – Daniela Calandra

Wellington è una strada che costeggia tutto un lato del parco della Ciutadella e continua, oltre passeig Pujades, fino a toccare il parco dell’Estació del Norte. I primi numeri delle case, che cominciano da questo limite, sono avvolti dal rumore del traffico, da quello degli autobus che partono e arrivano, dalle bici che sfrecciano nel parco, dal chiacchiericcio di quelli che vi passeggiano. Nell’estremo opposto, invece, l’unico traffico è costituito dal tram che serpeggia sulle rotaie in su e in giù, accompagnato dal suono della campana che ogni tanto riecheggia come monito per i passanti. L’ampia via ferrata divide il marciapiede che fiancheggia il parco da quello su cui si affacciano un’alta palazzina di appartamenti, il complesso dell’università che combina architetture future e passate, un grande edificio abbandonato e un parcheggio a cielo aperto quasi sempre vuoto. Di giorno il via vai generale è garantito dagli universitari e dalle famiglie o dalle scolaresche che scelgono di andare allo zoo. Perché l’unico accesso lungo il muro del parco è proprio l’entrata allo zoo. Con il buio, invece, lo scenario è diverso. Gli sciami di studenti sono sostituiti da corridori sporadici, il tram striscia sempre con meno frequenza fino a sparire in una tana lontana. Nella strada scura brilla una finestra di quell’edificio che di giorno sembrava abbandonato, faretti splendenti lasciano intravedere interni dove si susseguono corridoi bui abitati solo da scaffali di libri. Gli alti lampioni della strada lanciano un cono di luce giallognola, che oltre ad illuminare l’asfalto, mettono allo scoperto l’intensa umidità che si alza insieme all’imbrunire, alimentata dal parco e dal mare vicino. Wellington di notte gode di una calma spettrale. La prima volta che Maja aveva girato l’angolo del parcheggio per tuffarsi lungo la strada il suo passo svelto si era fermato di colpo. Non c’era nessuno, solo alti alberi un po’ spogli. Si respirava umidità e salsedine. Conosceva quella strada ma non così, non con quell’aspetto. Si strinse nel suo cappotto e riprese a camminare a passo svelto, col capo chino. Guardò di sottecchi la finestra illuminata dentro la casa con il catenaccio sulla porta, tirò avanti quando vide due ragazzini col cappuccio fumarsi una canna su una panchina. L’odore intenso aveva sostituito quello salmastro che aveva sentito all’inizio. Ma c’era qualcos’altro, un altro odore che sentiva e in qualche modo le sembrava familiare. All’improvviso sentì l’animale e trasalì. Il silenzio quasi perfetto di quella notte era stato improvvisamente interrotto da un grugnito. Breve, ma alto e chiaro. Ne seguì un altro. E un altro, più debole. Maya se ne restò ferma impalata, non capiva. “Non abbia paura signora”, le disse uno dei ragazzi. “Non possono saltare, c’è la rete”. “Come?”, rispose Maya frastornata. L’antico timore di non capire la lingua ogni tanto riaffiorava. “Vedi là? Oltre il muro c’è una rete più alta. L’hanno messa quelli dello zoo così gli animali non scappano”. Improvvisamente ricordò che lo zoo esisteva ed era proprio lì, a due passi. “Ma che animale è?”, chiese ormai senza nessuna paura. “Io dico che è un leone, lei dice che è una tigre”. Il sostenitore di quell’ipotesi si calò il cappuccio e si rivelò essere una ragazzina dagli occhi arrossati. “Tu cosa dici, signora?”. “Io…non lo so, ci devo pensare”. Improvvisamente riposseduta dalla fretta, Maya riprese il suo passo svelto senza smettere di pensare a quel verso. Solo quando fu distesa a letto, con gli occhi chiusi capì che l’odore che sentiva familiare era quello di animale, di stalla, di paglia, cibo, sterco, lo stesso che sentiva nella fattoria della nonna quando era piccola. In un gesto istintivo portò le mani al viso, come quando prendeva una manciata di fieno e l’odorava. Ma quello che penetrò adesso nelle sue narici era l’odore indelebile della candeggina che stentava a lasciarla nonostante la sua giornata lavorativa fosse finita.

La notte dopo Maya reagì all’immagine spettrale di Wellington senza nessuna paura. Quello che provò allora, mentre guardava con occhi diversi la strada buia non più nemica, era un senso di appagamento. L’inquietudine che le era pulsata dentro per tutto il giorno finalmente si spegneva. Capì che era impaziente di risentire l’animale, di ritrovare nelle narici quegli odori che le ricordavano l’infanzia, di rivivere i ricordi che si erano assopiti durante gli anni. Camminò con passo sicuro ma senza smania. Voleva dare tempo all’animale di capire che lei era lì, che era tornata per lui. Era l’unica presenza sulla strada, quello era il suo momento, uno dei pochi momenti da protagonista della sua vita, una delle poche cose che sentiva di poter possedere veramente. Un momento. Il cuore le iniziò a pulsare veloce, perché desiderava davvero, profondamente sentire di nuovo l’animale. I battiti si susseguirono anche più veloci quando il suo passo si fermò davanti al muro come la notte prima. Passarono alcuni secondi, secondi in cui Maya contemplò con occhi quasi febbrili la rete oltre il muro, aspettando una risposta. La mano con cui anche quella notte si stringeva il cappotto all’altezza della gola era quasi una tortura a causa del respiro accelerato. Iniziò a chiedersi se non dovesse essere lei a iniziare la conversazione. E proprio in quel momento, come se avesse potuto leggere quel pensiero sparato veloce nella sua testa, l’animale si fece sentire di nuovo. La mano sciolse la presa nervosa e Maya finalmente respirò alleggerita. Riempì i polmoni di quel odore che la notte prima l’aveva tramortita e che ora riconosceva come suo. Suo era il ricordo della casa di campagna, dell’aia, della stalla, degli animali, del fieno, della terra. Suo era il ricordo delle piccole manine, di quelle raggrinzite dagli anni che vegliavano su di lei, del cielo azzurro terso che vedeva quando alzava gli occhi, la sensazione di tepore del primo sole caldo sulle gambine nude. Suo era il ricordo delle sue piccole dita protese verso il muso di un cavallo, di una mucca, di una gallina, la sensazione dell’animale sotto il palmo, l’emozione di guardarlo negli occhi. Felice per aver ritrovato quel ricordo che le apparteneva, per riviverlo nuovamente, iniziò a parlare. La conversazione si svolse come i dialoghi nei sogni. Maya non era sicura della lingua che usava per parlare, sapeva solo che parlava e che l’animale rispondeva. A volte i grugniti di risposta seguivano veloci quello che lei gli raccontava, delle altre erano preceduti da momenti di silenzio. Non sapeva esattamente quanto tempo passò prima d’iniziare a sentire indolenzito il collo proteso verso il muro dello zoo. Iniziò a sentirsi stanca tutto in una volta. Salutò l’animale e gli promise che avrebbe fatto ritorno l’indomani. Questa volta non rispose e Maya pensò che magari dormisse di già e con un sorriso disegnato sulle labbra s’incamminò verso casa.

Le conversazioni si susseguirono notte dopo notte. Maya aspettava con impazienza l’appuntamento con quell’interlocutore ferino e inaccessibile agli occhi e visibilmente trovava giovamento da quei dialoghi notturni. Di giorno non risentiva delle poche ore di sonno, anzi, chi la conosceva vedeva il suo viso più disteso e sereno. Quei pochi passanti che, invece, non la conoscevano affatto e avevano visto una signora rivolta verso un muro bofonchiare da sola avevano creduto fosse un po’ matta, tutto qua. A Maya importava poco, tant’è che, concentrata nella sua conversazione con l’animale, non badava a chi le stava intorno. Una notte, sentendo l’amico più nervoso, pensando potesse essere ammalato, intonò la stessa canzone che le veniva cantata quando da bambina era costretta a letto dalla febbre. L’animale si quietò e parve addormentarsi quando ebbe terminato. “Come me da piccola”, pensò Maya. Immersa tra i ricordi e il desiderio di aiutare l’amico, si rese conto solo quando si girò per andarsene che c’era qualcuno a pochi passi da lei. “Ciao signora”. Studiò per qualche secondo la figuretta che aveva di fronte per poi rivolgerle un largo sorriso e dire: “Ciao!”. Si trattava della ragazzina della prima notte ed era stato anche grazie a lei che erano iniziate le conversazioni. “Vuoi sapere che animale è?”, le chiese. “No, io non…”, iniziò Maya. E proseguì: “ma come fai a saperlo?”. “Ho iniziato a lavorare allo zoo. Stanno cercando un guardiano per la notte. Ti interessa?”. “Sì!”, rispose Maya decisa. “Vai domani a parlare con Tomá, è il responsabile. Puoi dire che ti manda Claudia, la niña”. “Grazie, grazie mille! Io sono Maya”, e per la prima volta abbracciò con sincero affetto una persona che appena conosceva.

Tomá non capiva la relazione tra la niña, che faceva fatica ad arrivare in orario e che spesso ricorreva al collirio per farsi passare il rossore degli occhi, e quella signora dell’est dalla faccia tonda e dal sorriso entusiasta che gli si era presentata per il turno di notte. Il responsabile descriveva con calma le mansioni di cui si sarebbe dovuta occupare Maya perché non era sicuro capisse bene. Rispondeva a tutto di sì con decisione nonostante secondo lui si trattasse dei peggiori lavori che si potessero avere allo zoo. Quando dopo l’ennesimo entendido? Maya rispose con un sorriso scuotendo affermativamente la testa, Tomá diede per esaurite le sue responsabilità. Quella notte stessa, avvolta in una tuta blu, Maya si presentò puntualmente al suo appuntamento, ma questa volta dal lato opposto del muro. Contemplava la zona dedicata all’animale, gli arbusti, gli alberi, le rocce che componevano la sua casa. L’alta rete che oltrepassava il muro che fino a quel momento aveva osservato dal marciapiede di Wellington. Non vedeva l’animale però. Pensò che avesse avuto timore, in fondo non si erano mai visti. Iniziò a cantare ma con gli occhi chiusi, presa dall’emozione. Quando li riaprì, a pochi passi trovò l’animale ad accoglierla. Conversarono come ogni notte.

Testo di Chiara Mancinelli

Illustrazione di Daniela Calandra

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